(Immagine: una scena di Monica e il desiderio di Ingmar Bergman)
Fulvia lava il terrazzo indossando All Star rosse. Fulvia è l’amata del romanzo “I segnalati” di Giordano Tedoldi (Fazi Editore): lei e chi narra la storia incarnano la congiunzione dei destini che si oppone all’avversione del mondo.
Un giorno Fulvia ha un battibecco con alcuni bambini. Questi la insultano e la provocano sotto casa, fino a quando non lancia una sfida. Li avrebbe bagnati tutti tramite il secchio con cui sta pulendo il terrazzo. Ma quando prende la rincorsa e scaglia in alto il secchio, uno dei bambini, nella fuga, spintona un compagno fino a farlo cadere contro un gradino di pietra di un portone dove sbatte la testa. La morte del bimbo è una faglia che destabilizza i destini. Diventa un richiamo irresistibile all’abisso: un desiderio di mortificazione infinita che seduce e pietrifica, che incanta fino alla cecità: è una passione per l’eterno, l’oblio.
E ti attira in questo abisso una voluttà di annientamento. Impressiona il rigore con cui è modulato lo stile, la cadenza impeccabile con cui si susseguono le frasi capace di dettare il ritmo al respiro: fino a quando non senti di respirare tutto il male e il dolore del libro che leggi: fino a pensare di essere quel male e quel dolore.
La colonna sonora si alza maestosa alternando musica classica a musica antica. Viene ascoltata, composta e eseguita con una violentissima estasi, una sofferenza sempre cercata fino al godimento per il martirio. Perché i personaggi non riescono a vivere se non ammorbati dalla malattia, dalla deviazione psicotica. Sono figure ossessive che, anziché soffrire alla ricerca tragica della propria identità, si ostinano a frantumarsi pur di non essere, dipendenti dai sensi di colpa, assecondano in ogni modo pulsioni di morte: questo è un romanzo in cui il lutto non si elabora ma si celebra.
E tu hai la sensazione di assistere affascinato al decadimento delle strutture architettoniche e di ogni singolo arredo; si deteriorano le coordinate temporali e spaziali; si decompongono le esistenze. Ma sempre senza che mai si sfochi un’immagine, senza che mai un pensiero si sformi.
Il testo è investito anche da forze sincretiche: esoterismo, stregoneria medioevale, riti greci, buddismo. Il mistero, nelle personalità psicotiche, è una dimensione patologica connaturata. Ma è tutto l’intreccio a essere tramato con questi movimenti nevrotici e trascendentali: la realtà vibra con una fragilità commovente.
Segui la storia con una paura che si fa di cristallo per non correre il rischio di spalancare le porte all’informe. Nelle pagine il rimosso fluisce privo di inibizioni, sono gli incubi e gli istinti ancestrali a dominare la scena: non esiste coscienza. La perfezione e la bellezza dell’arte si contemplano per supplire alla disintegrazione interiore. E l’amore non è una scommessa su legami complementari, è un delirio che allontana da sé, un fantasma che non permette di affrontare la propria mancanza. Il vuoto in dinamiche simili è inconcepibile, è subito colmato da coazioni frenetiche. Qui le vertigini che si spalancano in ogni esistenza, che in esistenze mature causano crisi drammatiche da cui poi, però, ci si riprende per poi riperdersi e ancora dopo risollevarsi e intraprendere un nuovo cammino – apprendendo dall’esperienza, maturando percorsi rigenerati, sempre in attesa di commettere errori ancora diversi –: qui tutta questa umana fragilità deve essere colmata a forza di compulsioni.
Tra tali dinamiche perverse il silenzio è scongiurato: se si lasciasse filtrare il dubbio, contro le identità in rovina dei personaggi si schianterebbe l’apocalissi.